Locandina Ant-Man

Ant-Man

Un film di Peyton Reed - Con Paul Rudd, Hayley Atwell, Evangeline Lilly, Judy Greer, Corey Stoll.
Titolo originale id. Azione/Fantascienza, durata 115 min., colore - USA, 2015 - Walt Disney Pictures
Al momento non in programmazione

Lo scassinatore Scott Lang accetta un ultimo colpo, ma dentro la cassaforte anziché soldi trova una strana tuta. Quando la indossa attiva un meccanismo di miniaturizzazione che lo trasforma in un minuscolo guerriero. Contattato dal creatore della tuta, lo scienziato Hank Pym, Scott si troverà di fronte alla difficile decisione di diventare Ant-Man e salvare il mondo da un pericolo mortale.
La più volte annunciata Fase 2 dell’epopea cinematografica Marvel arriva al suo momento chiave. Perché nonostante la sua natura minore, o meglio minuscola, all’interno dell’universo della Casa delle Idee, Ant-Man è destinato a incarnare un ruolo cruciale. Quello della diversità, del supereroismo come riscatto, definitivamente riconquistato da quei nerd che l’hanno generato, sulla scia dei Guardiani della Galassia che sono già cult generazionale. Perché se il supereroe con superproblemi è il marchio di fabbrica della Marvel, pochi possono competere con la mancanza di glamour di un ex galeotto divorziato e miniaturizzato a cavallo di una formica. La scommessa più audace di un pantheon disincantato, capace di prendersi gioco dei dogmi di un rituale che non nasconde ult(ron)eriori sorprese. Propositi che conferiscono a Ant-Man una responsabilità che l’opera di Peyton Reed dimostra chiaramente di non poter gestire appieno. In primis per la sua natura ibrida e irrisolta: in origine progetto pluriennale diEdgar Wright (L’alba dei morti dementi, Scott Pilgrim vs the World), destinato a sconvolgere il canone tra mille aspettative, si è trasformato, a causa di divergenze creative, in quello di Peyton Reed.
I “se” e i “ma” si sprecano in ogni dove, attribuendo, come da usuale folklore pro-perdenti, a Wright ogni intuizione e al suo erede ogni malefatta, ma la verità sulla paternità dell’uno e dell’altro resta un mistero. Quel che è oggettivo è l’accento posto sul lato comico della sceneggiatura (a cui nella riscrittura ha messo mano lo stesso Paul Rudd), al servizio di un Paul Rudd post-Judd Apatow (Questi sono i 40) e di un Michael Pena così esilarante da rischiare di oscurare il protagonista.
Nell’animo genuinamente infantile di Ant-Man – La Cucaracha in apertura, a prefigurare Speedy Gonzales come uno dei principali riferimenti sotterranei, o l’incredibile epilogo pixariano nella cameretta di una bambina tra trenini giganti e insetti di dimensioni garroniane – vive il ridimensionamento necessario di un filone il cui gigantismo rischia di stimolare la bulimia del pubblico, ma di arrestarne ben presto la digestione. Sono infatti proprio le infiltrazioni nello script del franchise Avengers – emblema con l’ultimo Avengers: Age of Ultron del vuoto (e insieme dell’horror vacui) che caratterizza il calo narrativo marveliano – a sconvolgere struttura e intenti di Ant-Man, così come gli stereotipi arrugginiti sul percorso di apprendimento e consapevolezza dell’eroe recalcitrante. L’effetto ossimorico che deriva da questi contrasti non fa che accentuare la sensazione di un progetto che non ha goduto della necessaria libertà per spiccare il volo e per far decollare la Fase 2 di una Marvel incapace di resettare i suoi già obsoleti e ingombranti campioni di incassi. Ant-Man funziona nella sua irriducibile singolarità, nella sua anarchica impossibilità di adattarsi a schemi consueti. La volontà di imporre comunque questi ultimi non pare un buon viatico per la nuova ondata Marvel, ma i segnali forniti da alcuni elementi del film di Reed inducono a confidare ancora nelle Idee della relativa Casa.