Vessato e fiaccato dalla vita, da un matrimonio fallito per questioni economiche, dalla frustrazione di una figlia che non vede mai e da un lavoro che l’ha mollato, il capitano Robinson accetta di giocarsi tutto in una missione clandestina ma potenzialmente miliardaria. Sul fondale del Mar Nero giace il relitto di un sottomarino russo che trasportava un carico d’oro dalla Russia di Stalin alla Germania di Hitler, qualcuno ha il punto esatto, occorre solo un equipaggio così disperato da essere disposto a rischiare la vita in una missione di recupero. Con un manipolo di uomini selezionati tra il peggio (che paradossalmente è il meglio) disponibile sul mercato inglese e russo (il sottomarino che useranno viene da lì e occorre qualcuno che parli la lingua), Robinson deve navigare di nascosto al di sotto della flotta russa stanziata sul Mar Nero e contemporaneamente tenere a bada la follia avida che prende piede tra i suoi uomini.
Il cinema dei sottomarini è un sottogenere a sè che si nutre di contraddizioni, unisce le convenzioni dei film di guerra, d’azione e thriller, con le regole ferree dei drammi d’interno, è necessariamente alimentato dalla parola ma adotta uno stile (quello dei film virili) per il quale occorre parlare il meno possibile e “fare” il più possibile, in cui quel che viene detto non conta mai quanto ciò che viene fatto e spesso è in contraddizione con esso.
Black Sea aderisce goduriosamente ad ognuna di queste regole e prova un piacere condivisibile nel mettere il suo gruppo mal assortito di protagonisti nel luogo più spiacevole e nelle condizioni peggiori.
Con uno sceneggiatore proveniente dalla miglior serialità televisiva (Dennis Kelly, autore di Utopia) e un regista trasformista come Kevin Macdonald, questa produzione anglo-russa manipola con disinvoltura rara gli assunti del genere e, benchè troppo spiccio nel giungere alle proprie conclusioni, sa tenere bene a mente l’obiettivo ultimo. La condizione disastrata dei protagonisti è infatti ben più del solito accenno iniziale utile a creare un contesto e fornire una motivazione, lentamente la ricerca e la brama dell’oro acquistano tratti mitologici e Black Sea viene contaminato da una componente solitamente estranea ai film d’azione e più vicina a quelli d’avventura. C’è una crescente epica nella maniera in cui l’equipaggio lotta e si danna per l’oro, con la disperazione umana della povertà alle spalle e un futuro di ricchezza nella loro testa, i dannati del sottomarino di Robinson mantengono lungo il film una tensione fantastica verso il possesso che regala diverse svolte inattese.
Ad orchestrare e scandire i tempi c’è Jude Law. Per la prima volta in un ruolo duro e ruvido, metronomo del ritmo e della tensione del proprio equipaggio, l’attore inglese si dimostra perfettamente in grado sia di incarnare la solidità del capitano di mare sia di contaminarla con la vena malinconica degli eroi con famiglia spezzata alle spalle. La sua è finalmente una prestazione fuori dalla zona confortevole nella quale le molte commedie e i molti ruoli tra loro simili lo tenevano ingabbiato.
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