Johannesburg, 2006. La metropoli sudafricana è assediata da bande criminali. Per fare fronte al numero di aggressioni, omicidi, regolamenti di conti e rapine a mano armata che sconvolgono la città, le autorità di polizia ‘ingaggiano’ una brigata di robot umanoidi costruiti dalla società Tetravaal e ideati da Deon, giovane ingegnere indiano che da tempo lavora sull’intelligenza artificiale. Il sogno di Deon di dotare le sue creature di una coscienza è osteggiato da Michelle Bradley, presidente dell’impresa interessata soltanto al profitto e da Vincent Moore, ex militare esaltato e ostile che vorrebbe boicottare i robot a favore di una macchina da guerra manovrabile dall’uomo. A complicare il progetto di Deon interviene poi un gruppo di gangster naïf decisi ad adottare e ad addestrare Chappie, l’umanoide intelligente e perfezionato che deve imparare a vivere come un bambino. Ambizioni, mire ed egoismi personali annulleranno la pace armata faticosamente conquistata sulle strade.
Dopo Elysium, avventura manichea di un prodigio vinto dalla macchina hollywoodiana, Neill Blomkamp torna coi piedi sulla terra e con la testa a Johannesburg, dove ritrova l’audacia sovversiva delle origini e un soggetto che evoca il suo primo film (District 9). Science-fiction assemblato e brutale, Humandroid è ambientato in un futuro (molto) prossimo e precipitato nei bassi fondi di Johannesburg dove fanno il buono e il cattivo tempo un gruppo di spostati, interpretati dai membri di un gruppo rap locale (i Die Antwoord). Più cattivo di loro, nell’ora della battaglia dimostreranno comunque di avere un cuore, c’è solo il bad guy di Hugh Jackman che condivide l’aura divistica con Sigourney Weaver, sprecata in un ruolo insignificante. Tra loro il creatore di Dev Patel e la creatura di Sharito Copley, agito dalla tecnologia. Corpo disincarnato e anima catturata dai marcatori, Copley fornisce voce e linguaggio del corpo a Chappie attraverso la tecnica della motion-capture. Convertito digitalmente in un personaggio al titanio, l’attore sudafricano ‘incarna’ il personaggio più simpatico e profondamente umano del film, che prosegue il discorso sull’intelligenza artificiale che appassionò ieri Arthur C. Clarke e Isaac Asimov e richiama oggi celebri precedenti cinematografici. Risalendo indietro fino all’automa meccanico di George Méliès o alla Maria di Fritz Lang, l’umanoide è la magnifica ossessione del cinema che qualche volta alla maniera di Chappie prende coscienza di sé e della sua condizione mortale.
Composto di titanio e ‘acceso’ da un software, l’humandroid del titolo scopre la sua vulnerabilità e la sua batteria a carica limitata, conducendo il film verso la favola esistenziale. Favola che a questo giro ha il sopravvento sulla parabola politica. L’action impegnato cede il passo alla riflessione filosofica e si interroga sull’intelligenza artificiale, fornendo una risposta ottimista che anticipa l’emancipazione dalla carne e il ricollocamento della coscienza in una chiavetta USB. L’idea efficace e ambiziosa interviene tuttavia troppo tardi e dopo un blockbuster che accumula i cliché del genere, faticando a trovare il suo tono. Sbandando tra gore e mélo, tra thriller e atmosfere ludiche da serie B, Humandroid disattiva l’applicazione fungente e scivola nell’effetto caricaturale. Indeciso tra la science-fiction radicale (District 9) e le convenzioni hollywoodiane (Elysium), Humandroid appare a conti fatti un oggetto bizzarro che ‘rapisce’ al debutto ma perde energia come Chappie nel rodaggio. Ostaggio nei panni, nei gesti e nel vocabolario gergale di banditi scadenti che corrompono la lirica metafisica della sua anima.
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