Michel Leproux, dentista egotico che vive in un grande appartamento haussmaniano, è appassionato di musica jazz e noncurante del prossimo che comprende una moglie depressa, un figlio disoccupato, una madre logorroica e un padre ricoverato. Un sabato al mercatino delle pulci di Clignancourt trova un album rarissimo, “Me, Myself and I” del clarinettista Neil Youart. Dribblati traffico, code e clienti petulanti, rincasa in fretta deciso a godere del suo acquisto. Ma il desiderio della moglie di rivelargli un vecchio adulterio, un figlio deciso a ospitare in casa una famiglia di clandestini cinesi, un’amante ostinata a confessare la loroliaison, un operaio portoghese che si finge polacco e idraulico e un vicino entusiasta e determinato a coinvolgerlo nell’organizzazione della festa del buon vicinato, gli impediranno la fruizione del disco. L’accumulo di contrattempi lo condurrà sull’orlo di una crisi di nervi.
Adattamento di una pièce teatrale di Florian Zeller (“Une heure de tranquillité”), interpretata in palcoscenico da Fabrice Luchini, Tutti pazzi in casa mia è un boulevard, una commedia popolare comica e leggera che schiera un musicofilo egoista, sempre a lato dell’essenziale, contro una messe di personaggi puntualmente rimbalzati per un’ora di tranquillità. Il tempo che serve al protagonista di Christian Clavier per ascoltare il disco di Neil Youart, clarinettista leggendario (e fittizio). Chiuse le porte di casa, Michel Leproux non vorrebbe più saperne del mondo esteriore che nondimeno lo incalza chiedendo udienza per ragioni private, sociali, professionali. Film corale che accumula imprevisti e cresce in intensità fino a traboccare come l’acqua dalla tubatura danneggiata dal finto polacco di Arnaud Henriet, Tutti pazzi in casa mia è una commedia di cui possiamo ridere col distacco di chi schiva la buccia di banana e guarda un altro scivolarci sopra. Erede della farsa coniugale e adulterina francese, con porte che sbattono e scheletri emersi dall’armadio, il film di Patrice Leconte moltiplica i tormenti del protagonista alla ricerca di quiete, quello stato divino in cui tutto è ordine e silenzio e il mondo resta fuori, lontano. Al centro di una successione di situazioni esasperanti che minacciano gradualmente di rendere folle il protagonista c’è Christian Clavier, reduce dal successo di (e tornato popolare con) Non sposate le mie figlie.
Misantropo anaffettivo e passivo, asserragliato nel suo salone e rintanato dentro gli ultimi miraggi possibili, Michel Leproux è al centro di un gioco collettivo, una jam session a cui replica con vibrazioni indotte da una commedia che sembra sforzarsi e in cui tutti cercano indicazioni e via di fuga, infilando scale, ascensore e conclusione. Quella che li disperde e scova il garbo di Jean Pierre Marielle. La direzione di Leconte, che ritorna alle origini e al vaudeville, è indecisa, senza ritmo e freneticamente aggrappata all’attore principale che, nonostante le buone intenzioni e il carattere esplosivo, non riesce a elevare il suo personaggio al di sopra della caricatura. La meccanica del boulevard non gira nemmeno con iniezioni lubrificanti di realtà (il figlio militante sociale e gli immigrati clandestini). Il doppiaggio senza profondità e le armoniche abitudini articolatorie dei francesi fanno il resto.